Torino, strategia contro il dissenso
Prendo a prestito il titolo di un articolo di Livio Pepino a proposito delle ultime misure cautelari che hanno stimolato l'assemblea di ieri sera a Bussoleno in cui Nicoletta Dosio ha annunciato che non intende ottemperare all'obbligo di firma. La cosa non stupisce (anche se riempie di ammirazione) i valligiani e tutti coloro che la conoscono, dovrebbe invece stupire gli italiani disattenti l'articolo di Pepino che ben spiega la mole e la potenza delle azioni in atto contro i notav per cui ve lo riporto in versione integrale.
I due pesi della magistratura . Corsia preferenziale per i processi ai No Tav, mentre i reati da essi
denunciati vengono trattati con tempi compatibili con la prescrizione
Il copione si ripete. Ieri mattina, appena ventiquattrore dopo il terremoto elettorale che ha rimesso
in discussione, a Torino, gli equilibri politici intorno alla Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, un
ennesimo grappolo di misure cautelari si è abbattuto su esponenti del movimento No Tav. Ancora
una volta le misure si riferiscono a fatti accaduti un anno prima (il 28 giugno 2015 intorno al
cantiere della Maddalena di Chiomonte allorché un gruppo di dimostranti tentò e in parte riuscì ad
agganciare e rimuovere, con un gesto di evidente significato simbolico, pezzi delle reti di
recinzione).
Ancora una volta l’accusa è di resistenza a pubblico ufficiale (con l’appendice di alcuni reati minori).
Ancora una volta gli indagati colpiti dalle misure sono, nella stragrande maggioranza, persone note
nel movimento, ben conosciute dalle forze dell’ordine, non certo interessate a sottrarsi alle indagini
con la fuga o a manomettere e inquinare le prove dei fatti.
Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Da oltre dieci anni i cittadini e le cittadine della Val Susa che si
oppongono alla realizzazione del Tav sono oggetto di interventi repressivi di crescente gravità da
parte della Procura della Repubblica e dei giudici per le indagini preliminari del Tribunale di Torino.
Sono attualmente indagate in valle circa 1000 persone, di età compresa tra i 18 e gli 80 anni, per i
reati più vari, a partire dalla mancata ottemperanza ai provvedimenti prefettizi che vietano la
circolazione nella “zona rossa” prossima al cantiere della Maddalena di Chiomonte. In questo
momento sono soggette a misure cautelari – di diversa intensità – poco meno di cinquanta persone,
quasi tutte per il reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Nulla di nuovo, ma il protrarsi di forzature che non hanno nulla a che fare con l’obbligatorietà e il
sereno esercizio dell’azione penale. C’è una palese disparità di trattamento nei confronti degli
indagati appartenenti al movimento No Tav, nei cui confronti si assiste a una dilatazione abnorme
delle ipotesi di concorso di persone nel reato mentre pressoché tutte le denunce nei confronti delle
forze dell’ordine per lesioni anche gravissime a manifestanti sono state archiviate, senza alcuna
seria indagine, per l’asserita impossibilità di identificarne gli autori. C’è una corsia preferenziale per
i processi nei confronti di esponenti No Tav, trattati con assoluta priorità anche se relativi a fatti
lievissimi (come l’inottemperanza alle ordinanze prefettizie o il danneggiamento simbolico delle reti
del cantiere), mentre per i reati da essi denunciati (persino quelli con prove documentali come le
diffamazioni) sono per lo più trattati con tempi tali da assicurarne la prescrizione. C’è un ricorso
massiccio – appunto – alla custodia cautelare in carcere anche nei confronti di incensurati e
un’applicazione indiscriminata di misure non detentive per fatti di lieve entità (con prescrizioni
vessatorie e motivate con pure clausole di stile, come il diniego del permesso per recarsi a colloquio
con i difensori, la mancata concessione della possibilità di lavorare o di dare esami all’università, il
divieto di recarsi a far visita ai genitori etc.).
Dopo avere perseguito la strada del maxiprocesso (per i fatti di fine giugno-primi di luglio 2011) e
giocato la carta della fantasiosa contestazione del reato di attentato con finalità di terrorismo
(escluso in modo tranchant sia dai giudici di merito che dalla Corte di cassazione) i pubblici ministeri
e i giudici della cautela torinesi hanno scelto la strada di uno stillicidio di processi. Per anni
magistrati, politici e giornalisti hanno gridato ai quattro venti che gli interventi repressivi disposti
non riguardavano il movimento No Tav ma solo reati specifici commessi da frange estremiste e
violente, per lo più estranee alla Val Susa. Ora anche la maschera è caduta. I destinatari delle
misure cautelari sono per lo più vecchi e giovani valligiani imputati per fatti che in ogni altra parte
d’Italia meriterebbero, al massimo, un dibattimento di routine al di fuori da ogni “corsia
preferenziale”. L’evidente finalità è quella di intimidire, di dividere, di fiaccare il movimento secondo
un modulo ben noto in varie parti del mondo e denunciato in una recente sentenza della Corte
interamericana dei diritti dell’uomo, concernente esponenti del popolo Mapuche, laddove si
censurano alcuni interventi di autorità giudiziarie cilene siccome diretti a «provocare paura in altri
membri della comunità coinvolti in attività di protesta sociale e di rivendicazione dei loro diritti
territoriali o che intendono eventualmente parteciparvi».
Lo abbiamo sottolineato altre volte ma merita ricordarlo. Queste vicende parlano all’intero Paese
perché il livello di democrazia di un ordinamento si misura sul modo in cui vengono orientati, nella
repressione del dissenso, l’azione delle forze di polizia e della magistratura, quando non anche –
come avvenuto ripetutamente nell’Italia liberale e come avviene oggi in Val Susa – delle forze
armate in funzione di ordine interno.
Il Manifesto 22.06.2016